Stevie Wonder Dream Machines

Nel 1974, Gordon Bahary, un ragazzo di quindici anni cresciuto a Long Island, si trovava in una situazione che sembrava uscita da un sogno. Autodidatta e ossessionato dai sintetizzatori, era già un prodigio del suono, ma ciò che stava per vivere andava ben oltre la sua immaginazione. In quel periodo, la musica di Stevie Wonder dominava il mondo, e il doppio album Songs in the Key of Life era in fase di lavorazione. Gordon, armato solo del suo entusiasmo e di una convinzione assoluta, prese una decisione audace: chiamare a freddo la superstar.

Fu un colpo di fortuna, o forse di destino. Stevie Wonder, incuriosito da quel giovane sconosciuto, accettò di ascoltare la sua musica al telefono. Qualcosa, nel modo in cui Gordon parlava di suoni e frequenze, catturò l’attenzione di Wonder, al punto da decidere di invitarlo a Los Angeles. Nessuno, nemmeno lo stesso Gordon, avrebbe potuto immaginare l’inizio di una collaborazione tanto fuori dal comune quanto rivoluzionaria.

Appena atterrato a Los Angeles, Bahary venne condotto negli studi dove Stevie stava lavorando. Davanti a lui si dispiegava un paesaggio di cavi, macchine e strumenti che sembravano usciti da un futuro distante. Gordon, emozionato ma calmo, tirò fuori la sua attrezzatura analogica e mostrò a Wonder ciò che era riuscito a ottenere. I suoni che emerse da quel groviglio di circuiti non erano come nulla di familiare: erano crudi, vivi, pulsanti. In un istante, Stevie si illuminò, percependo il potenziale nascosto in quei timbri misteriosi.

Quella scintilla diede inizio a un sodalizio che avrebbe spinto i limiti della tecnologia musicale. Nei mesi e negli anni a seguire, Gordon non fu semplicemente un collaboratore: divenne il compagno di viaggio di Stevie Wonder in una ricerca quasi scientifica del suono perfetto. Quando nel 1979 i due si immersero nella creazione di Stevie Wonder’s Journey Through the Secret Life of Plants, l’ossessione per la sperimentazione raggiunse livelli inimmaginabili. Una notte, mentre erano immersi nel lavoro in studio, decisero di testare una teoria ardita. Collegharono elettrodi alle foglie delle piante presenti nello studio, tentando di captare le vibrazioni che quelle forme di vita emettevano in risposta ai loro sintetizzatori. La realtà si confuse con la fantascienza: quando aggiunsero acqua alle piante, le vibrazioni cambiarono tonalità, come se quelle entità verdi stessero cantando con loro.

Poi avvenne l’incidente. Uno dei musicisti dello studio, per gioco, diede fuoco a una foglia. In quell’istante, il flusso di suoni si interruppe bruscamente. Il silenzio che ne seguì fu sinistro, quasi innaturale. “La pianta ha smesso di cantare”, disse Gordon, ancora incredulo. Il musicista fu mandato via, ma quando tornò più tardi per raccogliere la sua attrezzatura, qualcosa accadde. La pianta, che sembrava addormentata, riprese a “cantare”, e le sue vibrazioni si intensificarono, raggiungendo toni acuti, sempre più alti. Un brivido attraversò tutti i presenti. “Forse è solo una coincidenza,” disse Bahary, ma nessuno riuscì a scrollarsi di dosso quella sensazione disturbante.

Quello che pochi potevano comprendere era quanto Wonder e Bahary fossero andati in profondità nella materia stessa del suono. Per Stevie, i sintetizzatori non erano semplici strumenti musicali. Erano porte verso mondi sconosciuti, dove il suono, più che la musica stessa, era il protagonista. Quando Stevie Wonder premeva i tasti delle tastiere che Gordon costruiva e modificava, accadeva qualcosa di magico. Una volta, Bahary aveva chiesto al co-fondatore della ARP, una delle prime aziende di sintetizzatori, di creare una tastiera sensibile alla pressione, in cui la forza con cui venivano premuti i tasti influenzava l’intensità del suono. Quando Stevie premette con forza, il suono trillò, vibrando come un’armonica eterea. La risata di gioia di Wonder riempì lo studio.

Ma non erano solo esperimenti. Era una nuova filosofia musicale. “Non cercavamo di replicare strumenti tradizionali,” rifletté Bahary, “stavamo esplorando mondi sonori che nessuno aveva mai immaginato.” E Wonder, con il suo orecchio infallibile e la sua mente aperta, sembrava un pioniere pronto a colonizzare un nuovo universo. Ogni nuovo suono generava un’idea, una melodia, una canzone. Non appena Wonder sentiva una nuova vibrazione, la sua mente partiva, come se il suono stesso contenesse una storia che aspettava solo di essere raccontata.

L’impatto di queste sperimentazioni si estese ben oltre i confini del laboratorio sonoro di Wonder. Il pedale wah, che Stevie aveva collegato al suo clavinet per creare il riff iconico di “Superstition”, rivoluzionò il funk. I nuovi pedali e sintetizzatori progettati da visionari come Bob Moog e Mike Beigel non avrebbero mai raggiunto il mondo come lo conosciamo senza il tocco visionario di Stevie. Persino l’eco spaziale del Mu-Tron Biphase, che si sarebbe sentito nelle produzioni reggae di Lee “Scratch” Perry e nel rock alternativo degli anni ’90, era in parte il frutto delle innovazioni di Wonder e Bahary.

Il loro laboratorio sonoro non conosceva limiti. Uno degli strumenti più misteriosi e potenti che Wonder acquisì fu il gigantesco Yamaha GX1, un sintetizzatore mastodontico che poteva suonare come un’intera orchestra. Quando Wonder compose Pastime Paradise su quel bestione, gli ingegneri posizionarono i microfoni nello studio come se stessero registrando una vera sinfonia, e il risultato fu così convincente che alcuni musicisti furono tratti in inganno, credendo di ascoltare una vera orchestra.

Tuttavia, Stevie non cercava semplicemente di imitare la realtà. “Il punto,” disse una volta, “non è creare copie perfette. Il punto è creare suoni più grandi della vita stessa.”

Con il passare degli anni, la rivoluzione che Stevie Wonder e Bahary avevano contribuito a scatenare prese piede. I sintetizzatori diventarono onnipresenti, e la musica si trasformò in un territorio fluido, dove generi e stili si mescolavano. Ma chi si ricordava che dietro a quei suoni ci fosse stato il tocco pionieristico di un uomo cieco e del suo giovane collaboratore, intenti a spingere i limiti della tecnologia e della creatività?

Nel cuore di Stevie Wonder, la musica e la tecnologia non erano mai state separate. Erano un tutt’uno, un portale per un futuro migliore, un’utopia sonora. E in quel viaggio, Gordon Bahary, il ragazzo che aveva osato sognare più grande di quanto chiunque avrebbe mai potuto immaginare, era stato il suo compagno di esplorazione.